Io l’amavo, la adoravo, la leggevo con avidità, divoravo i suoi articoli. Compravo Balletto Oggi e non saltavo mai un suo articolo. Per me era una fonte di critica sacra. Mi ricordo quando lessi la sua critica negativa su Sylvie Guillem. Quando di lei disse che era fredda. Era senza peli sulla lingua. Lei era così, schietta, vera. E mi ricordo quando registravo le sue puntate in tv. Il suo programma Maratona d'estate. Per sempre lei sarà la mia guida, anche se non c’è più.
Alla domanda: "Chi sono oggi la ballerina e il ballerino migliori del mondo?", i più rispondono: "Sylvie Guillem e Mikhail Baryshnikov". Curiosamente, proprio questi due artisti mi entrano da un occhio e mi escono dall’altro, senza lasciare traccia. Cercherò di spiegare, anche a me stessa, questa mia irragionevole indifferenza, se non addirittura animosità; nella consapevolezza che la colpa è probabilmente tutta mia.
Di Baryshnikov ho già parlato, anche su Balletto Oggi; e ne riparleremo magari un’altra volta. Per Sylvie Guillem, il mio problema viene da lontano. E cioé dal giorno in cui, tanti anni fa, arrivai in Bulgaria, come membro della giuria per l’Italia, al famoso Concorso di Varna giovani danzatori. Arrivai con qualche giorno di ritardo – e cioé quando erano già finite le prime eliminatorie. E subito l’amico André-Philippe Hersin, giurato francese per quell’anno, prima ancora di chiedermi come stavo, mi rovesciò addosso la sua travolgente, entusiasta certezza: la giovane candidata francese avrebbe vinto e stravinto, perché enormemente più brava e più bella di tutti.
Ahiahiai, il mio "rapporto" a distanza con Sylvie Guillem cominciava malissimo. Mi sentivo – sia pure amabilmente – oppressa e prevaricata da André Philippe e dalla force des choses. E così quando arrivò il giorno delle semifinali, cercai un altro giovane volto a cui guardare, e un’altra alta tecnica da esaltare. Pensai di parteggiare per Katherine Healy, un’americanina di 15 anni (che oggi è étoile del Balletto dell’Opera di Vienna). Era bruna, piccola e tondetta. Il contrario di Sylvie Guillem, bionda, alta, snella. La piccola Kathy saltava come un grillo e girava come una trottola, nelle invenzioni più virtuosistiche e acrobatiche del repertorio classico. Sylvie Guillem aveva scelto, invece, una variazione dal profumo più lirico che acrobatico: era regale, bellissima, distaccata. Troppo distaccata, mi dicevo, con qualche irritazione.
Al gran finale, mi pare, ci fu la terza tappa nel mio rapporto negativo con Sylvie Guillem: interpretò l’assolo La luna di Béjart, che tutti noi indentifichiamo con Luciana Savignano (per cui fu creato). La Savignano era una Luna insuperabile: tutto meno che distaccata. Era anzi impastata di furori segreti, sotto la gelida scorza lunare. Sylvie Guillem era, invece – mi dissi – soltanto gelida scorza. E sotto la scorza, nulla. Votai per Katherine Healy. Sylvie Guillem vinse a stragrande maggioranza, naturalmente, la Medaglia d’Oro.
La lealtà mi impose, comunque, pochi mesi dopo, di invitare Sylvie Guillem, oltre a Katherine Healy, alla "Maratona di danza" del Festival di Spoleto, che ho curato fino al 1996. C’erano, nella Maratona, un gran numero di "divi" internazionali, tra cui Rudolf Nureyev, Antonio Gades, Peter Schaufuss, Carla Fracci, Kevin MacKenzie, Ohad Naharin, Vladimir Derevianko, Elisabetta Terabust. Sylvie Guillem arrivò con Rudolf Nureyev, allora neo-direttore della compagnia dell’Opéra di Parigi, della quale lei già faceva parte. Nureyev seguì la sua prova con l’attenzione di un vero maestro: correggeva, mostrava, spiegava. Lei recepiva l’insegnamento di Nureyev con la stessa aria da regina sdegnosa, di dea gelida, che aveva a Varna. A me chiese, con piglio autoritario, di non collocarla, nel programma, dopo la Healy, ma prima. Mi lasciò di stucco, impaurita quasi, con quel suo tono che non ammetteva replica. Mi affrettai ad assecondarla. Danzò il passo a due del "Cigno Nero": bellissima, perfetta, fredda. Ma, mi dicevo, anche per legittimare la mia ostilità irritata, il Cigno Nero non deve essere freddo, col Principe, ma seducente e così colmo di passione, da eccitare anche i sassi. Fu applauditissima, da tutti, pubblico e critica, con mia buona pace.
Da allora la situazione "difficile", per me, si ripresentò in tante successive occasioni. Prima, nei vari spettacoli "Nureyev and friends": spettacoli un po’ frettolosi, forse, ma di alto livello tecnico. Il cast era sempre formidabile, con la presenza costante, oltre a quella di Sylvie Guillem, di Charles Jude, Isabelle Guérin, Manuel Legris (che allora, ci dissero, era il suo fidanzato). Una volta, ebbi anche la ventura di vederla con un altro gruppo di "Stelle dell’Opéra di Parigi", capeggiato da Patrick Dupond. Sylvie Guillem entusiasmò il pubblico con la variazione di Esmeralda, quella in cui leva più volte in alto, sopra la testa, il tamburello e lo percuote con il piede: così bella, così giovane, così acrobatica, così impeccabile. Nella mia ostilità – sempre più nascosta, sul piano ufficiale, in mezzo a tanto tripudio – mi vendicai pensando: "Dovrebbe praticare, più che la danza, la ginnastica artistica" (poi lessi, da qualche parte, che Sylvie Guillem proviene realmente dalla ginnastica artistica).
Ormai è irragiungibile: l’Inghilterra se l’è presa, come una gemma preziosa, per insediarla sul trono che fu di Margot Fonteyn. Che si può volere di più. Ma, per me, ohimé, fu l’ultima provocazione: com’è possibile che quel ghiacciolo perfetto, con la gamba levata in alto fino ai 180 gradi – e oltre, presumo, se volesse – vada a sostituire quel prodigio di grazia sorridente e di serena dolcezza, che fu Margot, una vera regina? E, in piena consapevolezza della mia miopia e della mia partigianeria, finii per ignorarla, per dimenticarla quasi, lasciandola lassù, agli Inglesi fedifraghi.
Ma rieccola, tenuta per la mano da Maurice Béjart alla fine di Boléro, fiero ed emozionato, come se Sylvie Guillem fosse sua figlia. Di quel Boléro non ricordo nulla, se non l’applauso universale, il rosso tiziano della sua capigliatura, i capelli lisci, la frangetta, il body rosso cupo, come un costume da bagno "Jantsen" degli anni Trenta, a un solo pezzo, e la muscolatura quasi mascolina. Non sono riuscita a rintuzzare, nel segreto dei miei pensieri, il commento più sleale e trasgressivo, a questa sua nuova immagine. E a chi mi chiedeva, dopo lo spettacolo: "Non è fantastica?" oppure "È divina, non trovi?" ho sempre risposto a bassa voce: "Sì certo", felice di non doverne scrivere il giorno dopo.
Ma adesso le cose si complicano: Sylvie Guillem sta per tornarmi davanti agli occhi, come coreografa e interprete principale di Giselle. I ballettofili perfetti già pregustano il meraviglioso evento. Io, col capo sotto la sabbia, come uno struzzo, cerco di non pensarci. Già me la vedo: bella, acrobatica, elegantissima, nel primo atto; pallida e fredda come la luna, e con le perfette punte d’acciaio, nel secondo. E già prevedo il suo trionfo, mentre io – incapace di incassare anche quest’altro colpo – me ne tornerò a casa con la coda tra le gambe, pensando alla Chauviré, alla Pontois, alla Fracci, alla Makarova, con clandestino rimpianto.
Vittoria Ottolenghi(BallettoOggi n°115 – Febbraio/Marzo 1999)
Mia nonna, che noi nipoti chiamavamo nonna Ottolenghi, sarebbe stata lusingata dalle tue parole. Grazie
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