martedì 15 gennaio 2013

Intervista ad Alessandro Sciarroni



Ho visto una foto di un suo spettacolo e l’ho guardata per un tempo per me indefinito, che mi è sembrato eterno. Sono stata catturata da quella immagine che mi ha fatto esplodere delle emozioni che non potrei scrivere, ma che mi hanno portato a cercare, a scovare, a leggere, ad ascoltare notizie su di lui. Chi è? Che fa? E' un regista? E' un coreografo? E’ Alessandro Sciarroni. E mi ha fatto il regalo post natalizio più bello che potessi ricevere. Rispondere alla mia intervista. Quando mi è arrivata la sua mail di risposta, ho letto le sue parole senza leggerle realmente perché volevo divorarle.
Adesso è a voi che voglio trasferire le mie emozioni regalandovi questa intervista ad Alessandro Sciarroni.

Alessandro, raccontaci come nascono le tue creazioni, dove trovi
l'ispirazione?
L'ispirazione per me è sempre una questione di intuizione. Normalmente vedo qualcosa che "blocca" il mio pensiero per qualche momento. Credo sia qualcosa che ha a che fare con la paura. La cosa che mi affascina, che ha catturato la mia attenzione, oltre ad essere "bella" pone sempre delle questioni controverse, fastidiose. Mi spinge a muovermi in un territorio dove non sono mai stato. Me ne fa sentire la responsabilità. Se il pensiero iniziale continua ad insistere nella mia testa per qualche giorno, allora può nascere un progetto a partire da questo pensiero, ed in seguito, un lavoro.

Purtroppo non ho ancora avuto il piacere di vedere dal vivo i tuoi lavori. Per fortuna esiste internet. Ho visto così, su tuo gentile invito, il tuo lavoro “Your Girl”, sicuramente molto forte come impatto iniziale. Personalmente ho un certo pudore nei confronti del diverso, per quanto non voglia mai considerarlo tale e vorrei trasmettere ai miei figli la naturalezza verso tutti. Prima di vedere Your Girl mi si insinuava il dubbio che tu avessi sfruttato la diversità per catturare la morbosa curiosità di alcuni spettatori,  quando invece ho visto il video completo di questo tuo lavoro, questo dubbio è crollato insieme alla parola diversità. Adesso sono curiosa di sapere quale emozione tu vuoi trasmettere con Your Girl. 
La questione delle emozioni da trasmettere è molto delicata. Sono convinto che ci siano molte persone che guardano a questo lavoro con sospetto. Io dal mio punto di vista sono molto sereno, perchè non lavoro mai pensando all""effetto" che un mio lavoro avrà sul pubblico. Non penso mai che una cosa farà ridere e una dovrà far piangere. Quando vedo qulcosa in una prova, e SENTO qualcosa che mi interessa, allora quel frammento probabimente finirà nello spettacolo. La stessa cosa accade quando non sono contento di ciò che vedo in una prova. Continuo a lavorare fino a quando questo senso di insoddisfazione non passa. In poche parole cerco di pormi, come maker, in una condizione di completa sincerità con me stesso rispetto a ciò che sento mentra vedo ciò che sto componendo. Sono io il primo spettatore dei miei lavori e cerco di analizzarli in maniera critica e onesta. In questo modo credo di assumermi la responsabilità di ciò che vedo. Se io mi emoziono mentre vedo una prova, allora sì, è possibile che anche parte del pubblico si emozionerà quando vedrà lo spettacolo finito. Ma non vado a caccia di emozioni da spacciare allo spettatore. Quello che decido di mostrare ha a che fare con ciò che sento io. Ricordo pefettamente il momento in cui abbiamo montato la scena finale di Your girl. Ricordo che mi tremavano i polsi dall'emozione. Ricordo la responsabiltà che ho sentito in quel momento: era l'immagine che stavamo cercando e questo ci faceva paura. Ma proprio per questo abbiamo deciso di mostrarla. Se io sono spettatore, oltre che maker, di ciò che faccio, se lo sono in maniera profonda, allora è possibile dire che è il pubblico che compone quell'opera, e nei casi più fortunati questo crea un'opera che è segno dei tempi…

Your Girl - Ph. Hugo Munoz


C'è un filo conduttore tra le tue varie creazioni? Se si, cosa lega un lavoro ad un altro?
Come ti dicevo, oltre ad avere un'ossessione per alcuni segni estetici, l'unica cosa che crea un legame tra i miei lavori è il mio bisogno in quel momento. Le creazioni che ho fatto fino ad oggi sono molto diverse tra loro. Questo perchè per me, mettermi al lavoro significa esorcizzare il senso di paura che provo all'inizio di cui ti dicevo sopra. una volta che la paura è passata, lo spettacolo è pronto e io sono nuovamente in viaggio verso l'esorcizzazione di nuova paura. 

Ho visto che hai fatto un'audizione per il tuo prossimo lavoro "I will be there when you die". Quali sono i criteri che utilizzi per scegliere i tuoi interpreti?
In questo caso sono molto specifici, poichè cerco dei giocolieri. Quindi devono saper far il loro lavoro, ovviamente. Ma poi sono alla ricerca di una sensibilità fisica, di una vibrazione energetica, e di precisione. Cerco un peformer che sappia rallentare il tempo, fermarlo se necessario. 

Consideri il tuo percorso artistico più vicino alla danza o al teatro? 
Rispetto a queste questioni…potremmo parlarne per ore. La questione è che oggi i linguaggi teatri e la danza contemporanea sconfinano facilmente nella Performance, e viceversa. Il termine Performance oggi è stato accettato in maniera impropria. Si usa molto spesso, per indicare un evento musicale, teatrale, di danza, ecc…che presenti un formato non esattamente tradizionale. Molti artisti che lo usano oggi ignorano completamente il fatto che con il termine Performance si fa riferimento alle azioni di numerosi artisti visivi, che dalla fine degli anni '60 hanno iniziato a considerare il corpo come medium, in opposizione al mercato dell'arte tradizionale che richiedeva un'ossessiva produzione di oggetti materiali. Si trattava di un linguaggio radicale, spesso violento. Chi faceva performance spesso odiava il teatro, perchè tutto ciò che accadeva in teatro era finto (questo è un concetto sul quale Marina Abramovich ancora oggi insiste).
In linea di massima io concordo con queste distinzioni rispetto ai linguaggi.
Negli ultimi trent'anni però gli artisti hanno sentito il bisogno di includere nella loro ricerca linguaggi provenienti da altre discipline. Oggi se vai a vedere uno spettacolo di danza non c'è nulla di strano se un
danzatore usa la parola. Io ad esempio, pur venendo dal teatro, pur essendo un attore e non un danzatore,
vedo circuitare i miei lavori principalmente nell'ambito della danza contemporanea, e pur nascendo come
regista, non sono affatto interessato all'uso della parola in scena. Francesco Vezzoli qualche anno fa vinse
la manifestazione “Performa”, a New York, presentando all'interno del Gugghenhiem di New York un
testo di Pirandello, Così è se vi pare, recitato da attori di fama internazionale: operazione del tutto coerente
rispetto alla sua ricerca. Marina Abramovich ha speso molti anni della sua carriera cercando di dimostrare
che la Performance era arte rivendicando il suo territorio e proponendo le sue azioni all'interno del circuito
dell'arte contemporanea, nelle gallerie. Il suo mercato oggi prevede, tra l'altro, la vendita dei "documenti"
legati alla performance (immagini innanzitutto) che assumono il valore di "monumento".
Ma io non venderei mai una foto di un mio lavoro. Per me quell'immagine è solo un documento. Passo continuamente dal linguaggio teatrale a quello della performance, e i miei lavori hanno sempre una forte connotazione coreografica ben precisa, e questo avviene in maniera conscia. 

Cosa temi di più nel tuo lavoro?
Questa è una domanda molto personale. Ha a che fare con le relazioni che si creano all'interno del mio lavoro, tra me, i miei collaboratori, e anche il pubblico. Non credo sia bene rispondere…!



         

         

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